storia di Walter - Parco Culturale di Camaiano

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Il Parco Culturale di Camaiano:
ovvero, il coraggio di ricordare il futuro!

Cos’è un parco culturale? Fondamentalmente è un’idea. Si potrebbe dire: soltanto un’idea! In questa epoca di pragmatismo un’idea sembra veramente poca cosa!

E' un’idea che, una sera, è sbocciata nella mente di qualcuno che stava partecipando con passione ad un incontro del Comitato per la Salvaguardia e lo Sviluppo del Territorio e dell’Occupazione (CSSTO) e il territorio è appunto quello che si estende sulle colline intorno a Camaiano, luogo echeggiante un passato storico ormai sepolto sotto le zolle, ma ancora capace di suscitare fantasie nella mente di  chi sa vedere, oltre le zolle, le vestigia di una Pieve che per  secoli fu il  riferimento per tante  vite e storie  che si dipanavano  intorno all’anno mille.

Vedere oltre le zolle non significa avere vista acuta, significa vedere con gli occhi dell’anima, o per dirla in modo più appropriato ad una riflessione storico-culturale, con gli occhi della complessità e dell’amore per il proprio territorio e per chi lo abita o lo ha abitato.

E chi espresse quella sera questa idea, solo un’idea, è, sì, capace di questo sguardo. Ma in quel momento a lui bastava dare voce ad un moto di desiderio che nasceva spontaneo da una vita dedicata a mantenere la memoria dei luoghi, a dare voce al silenzio delle rocce e visibilità all’umiltà dei cespugli. Desiderio di proteggere, desiderio di valorizzare, di condividere la bellezza con occhi altri dai propri, come un padre fa con un figlio, ..... o dovrebbe fare! Si sente che in questo moto dell’animo c’è qualcosa di grande per l’umanità: il riconoscimento delle proprie radici. Già, perché ogni volta che si protegge il figlio, si onora in realtà il proprio padre, si protegge il futuro per onorare il passato.

Il territorio naturale di Camaiano non ha bisogno per esistere delle nostre idee, è prima di noi, è ciò che ci da vita, è nostro padre. Ma se riconosciamo questo bellissimo legame di dipendenza, nasce il desiderio di partorire idee di protezione e valorizzazione, figli in onore di questo stesso territorio! Desiderio di assumere la responsabilità di essere tramite di trasmissione tra le generazioni: quale territorio vogliamo generare per i nostri figli e per i figli dei nostri figli? Perché noi tutti che calpestiamo oggi questi sentieri e che gustiamo l’aroma del mirto, presto dovremo lasciare il posto ad altre scarpe e ad altri respiri. Ma una cosa potrà sopravvivere, la possibilità per i figli dei figli di calpestare questi stessi sentieri e gustare l’aroma del mirto! Poca cosa? Forse! Eppure credo fermamente che non è così, perché è così che è arrivata fino a noi la capacità di sentirci umani: chi nasce in un territorio devastato e non rispettato cresce senza rispetto, prima di tutto per se stesso.

Sarà per tutto questo che quelle parole che stavano esprimendo soltanto un’idea si radicarono nell’animo di chi era presente a quella riunione e non lo lasciarono più. Anzi! Come  tutte  le  erbe  spontanee  (le  “malerbe”  per chi ha cemento sul cuore), misero prontamente radici e germogliarono in modo imprevisto: l’idea stava diventando pianta reale sotto lo sguardo sorpreso dello stesso ideatore. “Sì, un parco culturale! Troviamo il modo di dare a noi, agli altri, ai figli dei figli, strumenti per pensare la protezione, conoscenze per valorizzare le rocce, segnali per orientare sui sentieri. Che tutti possano conoscere il respiro del mirto!”

Un parco culturale non ha strutture, non occorre cemento o mattoni per realizzarlo, ha solo bisogno di volontà, sensibilità, informazione, … magari un sito internet … .

E' così che è accaduto.

Ma perché ho sentito il desiderio di raccontare tutto ciò?  Difficile dirlo! So soltanto che quella “malerba” ha crepato con le sue sottili radici i miei ricordi. I ricordi di bambino che godeva della protezione dei cespugli e della generosità delle pietre. Dalle crepe sono usciti stati d’animo dimenticati, immagini struggenti di un’infanzia spensierata vissuta vicino alla natura della nostra macchia, ma soprattutto l’odore della pipa di  mio  nonno, del suo trinciato forte, forte come quel masso che lo curvò per sempre mentre cavava nella Magnesite.

A dispetto della sua progenie ho avuto un nonno biondo con gli occhi chiari, tratti che si depositarono solo su una figlia per poi perdersi definitivamente. Nato a Castelnuovo, cavatore di ciocchi, gran lavoratore, come la maggior parte degli uomini e donne di quei tempi. Quegli occhi chiari erano vispi ancora a ottanta anni e mi piaceva che mi guardassero: il bambino che ero si sentiva visto e ricambiava non vedendo la sua spina dorsale spezzata dalla fatica, i sui capelli bianchi e quelle gengive quasi prive di denti. Nonno era proprio un bel nonno! Biondo alto e con gli occhi azzurri. Ancora forte e coraggioso. Forte lo vedevo, coraggioso lo sapevo dalle sue storie.

Storie di boschi e streghe a cavallo, di cadute su letti di fossi che accoglievano le  sue ubriacature, di eventi fantastici che illuminavano la notte con montagne di fuoco sfreccianti nel cielo, di ribellione agli ordini del gerarca, di spavalde e risolute minacce per fermare il potere del nobiluomo  sulla bellezza della  giovane dipendente. Le  storie animano un territorio, queste hanno sempre legato la mia anima a questo territorio. Ogni volta che ho attraversato un fosso, le sue poche acque mi hanno fatto rabbrividire la schiena, questo è il potere dell’anima. L’anima lega le cose, gli eventi, i tempi e la mia sperimentava il legame tra l’acqua e la schiena di mio nonno addormentato ubriaco nel freddo della notte.

Legami, che parola potente! Fa paura sentirsi legati. Quando si è legati non si può più far finta di non sentire. Se si è legati alla bellezza del mare, la plastica che vi galleggia ci fa male e ci indigna. Se si è legati a un bosco, vedere ammalarsi le sue piante ci addolora. Se si è legati all’anima di un territorio, tutto ciò che minaccia la sua integrità ci allarma e ci spinge a proteggerlo.

Gregory Bateson, antropologo e psicoanalista, padre dell’ecologia della mente, ci ha lasciato una splendida visione per comprendere la complessità dei legami tra l’ambiente e l’essere umano, tra il contesto che crea e il soggetto che è creato. Bateson è stato uno scienziato che ha avuto il  coraggio di ascoltare  la sua anima,  riflessioni cariche di  poesia le sue!  La complessità della natura, dice Bateson, non potrà mai essere colta pienamente dai nostri piccoli pensieri, semplicemente  perché la natura  agisce collegando e  retroagendo incessantemente  su ogni sistema  vivente, mentre i  nostri pensieri hanno  bisogno di separare per conoscere. Noi dividiamo e la natura unisce. Noi dividiamo per controllare e la natura unisce per  agire. Ed ecco  infatti come sono  ridotti gran parte  dei nostri territori sottoposti a questa prepotente illusione di controllo! Perché solo di illusione si tratta, ma, come tutte le illusioni, crea tanti danni prima che ci rendiamo conto della realtà.

La complessità della natura che ci tiene in vita può essere colta solo nell’intuizione poetica, nel senso profondo della bellezza e dell’armonia, sostiene Bateson. Quando l’intelligenza è al servizio di un animo così aperto e sensibile, allora, sì, è capace di produrre idee in armonia con  la  natura,  è  capace  di  collaborare  con  essa  e  abbandona  il  controllo  che  soltanto sottomette.  Ma  saper  cogliere  la  poesia  e  la  bellezza  della  natura  è  proprio  ciò  che contraddistingue l’umanità, che ha da sempre popolato i boschi di fauni, i monti di dèi, i mari di mostri, con ciò rendendo sacra la natura, per meglio onorarla e rispettarla. Questo ci salverà, se ancora siamo in tempo! Altrimenti la barbarie si impadronirà di noi, perché un essere  umano  privato  di  umanità  non  regredisce  allo  stato  bestiale,  ma  si perverte  in un cancro autodistruttivo.

L’idea del parco di Camaiano scaturisce allora dal bisogno profondo di rendere nuovamente sacro il territorio, così che per ognuno di noi sia più facile portare rispetto. È un bisogno che nasce dal cuore di un gruppo di persone che ricordano le fantasie del bambino che erano e che  non  hanno  dimenticato.  È quel  bambino che chiede  all’adulto di oggi  di occuparsi di nuovo dei sentieri,  degli alberi, del  suolo, del paesaggio:  “qui ci vuole  un cartello, là un’indicazione, … e qui bisogna spiegare la storia ….”. Vogliamo rieducarci alla sacralità e alla preziosità di ciò che natura e storia ci hanno donato, vogliamo essere grati facendo i custodi di questo tesoro,  perché sappiamo che  proteggerà la nostra  anima permettendo così  la trasmissione del senso di umanità ai figli dei figli.

Il futuro è in realtà un ricordo! Il futuro che desideriamo è in realtà prodotto dentro di noi dalla connessione con ricordi che chiedono ancora di realizzare un movimento sentito vitale o necessario. Ci possiamo chiedere: quale ricordo motiva le nostre scelte? Dobbiamo avere il coraggio di abbandonare ricordi di paura, di recriminazione, di mancanza e connetterci a ricordi di bellezza, di armonia, di accoglienza che possono ancora oggi spingerci a cercare un futuro che abbia queste caratteristiche anche per i figli dei nostri figli.

 
 
Gabbro, mercoledì 17 febbraio 2016
 Walter Giubbilini


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