Le miniere, le mineralizzazioni ed i minerali - Parco Culturale di Camaiano

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Le miniere, le mineralizzazioni ed i minerali
Nei primi decenni del secolo scorso era fiorente nel comune di Rosignano Marittimo l’attività mineraria, che sfruttava principalmente le importanti mineralizzazioni a magnesite assai diffuse nell’area.
Oltre alla miniera di Castiglioncello, situata al di fuori dell’area in esame, erano presenti le miniere di Campolecciano e di Macchia Escafrullina, ubicate in prossimità della frazione di Nibbiaia nella sottostante vallata del torrente Fortulla.
Tutte queste miniere hanno in comune la tipologia delle mineralizzazioni e lo loro genesi, che è comunemente attribuita all’azione idrotermale di acque ricche in anidride carbonica ed in minor misura in acido solfidrico, risalite dal profondo in corrispondenza delle faglie dirette che dislocano le serpentiniti.
L’interazione di queste acque con la roccia incassante costituita prevalentemente da silicati di magnesio, calcio e ferro ha determinato la formazione di carbonato di magnesio (magnesite), di carbonato di magnesio e calcio (dolomite), di silice in varie forme cristalline (calcedonio, opale e melanoflogite), di solfuri di ferro (pirite e marcasite) e di altri minerali accessori minori.
La miniera di magnesite di Campolecciano
ebbe una storia abbastanza limitata nel tempo ma insieme alle altre della zona rappresentò la più importante fonte italiana di approvvigionamento di questo minerale nei primi decenni del 1900 ed in particolare nel periodo del primo conflitto mondiale, quando dall’Austria non era più possibile importare la magnesite proveniente dalla Stiria.
 
Si trattò quindi di miniere d’importanza strategica in quanto dalla magnesite si ricavava l’ossido di magnesio con il quale si costruivano i mattoni refrattari per rivestire gli altoforni per la produzione di acciaio la cui richiesta era enormemente aumentata a causa delle necessità imposte dalla guerra.
 
Di questa miniera abbiamo una descrizione coeva da parte di Aloisi, che nel 1919 così scriveva: "Il vicino giacimento di Campolecciano è situato a settentrione del precedente e si presentò dapprima in forma un poco diversa; anche qui si avevano dei filoni relativamente potenti; ma assai meno regolari che a Castiglioncello ed intrecciantisi in vario modo tra di loro… Con il proseguimento dei lavori però, l’analogia con il giacimento di Castiglioncello è andata crescendo, i filoni si sono fatti più regolari man mano che le ricerche sono diventate più profonde, cosicché la supposizione… che i due giacimenti siano in realtà uno in dipendenza dell’altro, acquista sempre maggiore verosimiglianza. A Campolecciano, fino ad ora, lo sfruttamento è stato fatto più che altro a giorno, ma attualmente si stanno attuando i lavori per procedere anche qui in galleria; la produzione è per ora di 5-6.000 tonnellate annue”.
La coltivazione del giacimento, iniziata nel 1914, proseguì fino al 1929 e terminò definitivamente nel 1939 dopo anni di sfruttamento meno intensivo essenzialmente a causa delle elevate impurezze di silice presenti nel minerale che rendevano difficile la sua utilizzazione industriale.
Attualmente sono ancora visibili i resti delle antiche lavorazioni, che sono stati e sono tuttora meta di appassionati ricercatori che esplorando l’area con l’obiettivo di reperire campioni di minerali hanno fatto alcuni decenni orsono una importantissima scoperta: la melanoflogite.
Questo rarissimo minerale, polimorfo della silice, si presenta in aggregati globulari di 1-3 mm perfettamente limpidi ed incolori, del tutto simili a gocce di rugiada, e meno frequentemente in aggregati biancastri di cristalli cubici o anche in piccoli cristalli isolati.
Nella vicina miniera di Macchia Escafrullina
iniziarono nel 1938 delle ricerche per la coltivazione di solfuro di ferro rinvenuto in discrete quantità in un filone analogo a quelli di Castiglioncello e Campolecciano. Le ricerche furono abbandonate dopo l’estrazione di qualche migliaio di tonnellate di minerale ferroso a causa della sua estrema alterabilità e delle alte temperature esistenti nelle gallerie.
Una descrizione dettagliata di questo giacimento venne effettuata da Marinelli nel 1955, di cui si riporta il seguente stralcio: “la pirite…si presenta sempre con aspetto concrezionato e con la tipica struttura a gusci: spesso include pisoliti di magnesite e concrezioni di calcedonio. È sempre di colore grigio verdastro e mostra riflessi metallici solo sulle superfici fresche. La velocità di alterazione di questo minerale è veramente eccezionale. Bastano pochi giorni di esposizione all’aria per vedere una ‘fioritura’ di aghetti bianchi di solfato ferroso sulla sua superficie. I mucchi di minerale abbandonati sul piazzale della miniera sono stati in tal modo quasi completamente distrutti da più di dieci anni di esposizione alle intemperie: rimangono solo pochi resti scheletrici di solfuro evidentemente più resistente della rimanente massa del minerale”.
Il solfuro di tipo scheletrico fu individuato come: “…costituito interamente da marcasite, anche questa concrezionata, con cristalli allungati ortogonali alla superficie di separazione dei gusci e spesso geminati…La maggior resistenza all’ossidazione di questo minerale ne ha permesso la conservazione e la messa in evidenza nei mucchi di minerale ossidato”.
Ma il minerale più abbondante della miniera era la magnesite, presente in vari aspetti tra i quali quello più caratteristico ed interessante formato da aggregati di elementi centimetrici che possiedono struttura interna pisolitica e forma esterna poliedrica.
Ulteriori minerali della miniera sono il calcedonio e la dolomite, ed altri di origine secondaria tra i quali spiccano le “ocre cromifere” dal bel colore verde azzurro o verde smeraldo.
Al Gabbro:
Mineralizzazioni del tutto simili, seppur di estensione più ridotta, a quelle che furono sfruttate con le miniere di Campolecciano e Macchia Escafrullina, interessano le aree nei dintorni del paese di Gabbro.
Si tratta di mineralizzazioni a magnesite e dolomite e concentrazioni a solfuri di ferro.
Sono due le località più interessanti: una ricerca mineraria in località Pian Cascianese ed una vecchia cava di serpentinite conosciuta con il nome di Buca Fonda nei pressi dell’omonimo mulino sul botro Sanguigna.

Già dalla fine del 1800 nella località di Pian Cascianese è stata segnalata la presenza di mineralizzazioni filoniane la cui origine è da attribuire all’azione idrotermale, in corrispondenza delle faglie, di acque calde ricche di anidride carbonica e di acido solfidrico.
L’insigne geologo e naturalista spezzino Giovanni Capellini in una pubblicazione del 1878 faceva il resoconto di una sua visita effettuata alcuni anni prima; egli poté osservare: "…alcuni lavori intrapresi per ricercare minerale di ferro, nel luogo detto Piano coscianese e Cerrette, poco sopra il mulino della Sanguigna..…I lavori, da poco iniziati, già erano stati abbandonati; ma le rocce tagliate per la ricerca e l’estrazione del minerale di ferro erano ancora fresche ed offrivano grande interesse per il naturalista”.
Il Capellini visitò due gallerie di ricerca ed un pozzo profondo 12 m scavato seguendo l’andamento di un filone di limonite compatta che passava gradualmente in profondità a marcasite inalterata.
La situazione descritta dal Capellini a fine ‘800 è ancora oggi esistente e praticamente inalterata: due piccole gallerie, una delle quali accessibile e l’altra con imbocco parzialmente franato si aprono nella località Pian Cascianese, insieme ad un pozzo verticale nel quale alcune pareti mostrano ancora ben presenti le tracce delle lavorazioni manuali.
Il pozzo, originariamente ripieno di rifiuti fin quasi al piano campagna, è stato recentemente bonificato a cura dei proprietari e dei volontari rimuovendo e smaltendo i rifiuti fino ad intercettare in basso una delle due gallerie.
Nelle gallerie e nel pozzo sono ancora ben visibili i filoni del minerale di ferro, la limonite, che si è originata per alterazione dell’originario solfuro di ferro, la marcasite.
Di una terza galleria ci sono testimonianze dirette che narrano di una lunga galleria in discesa dalla quale si sarebbe estratta magnesite; le uniche tracce presenti attualmente che potrebbero essere ricondotte a questa struttura sono rappresentate da un accenno di imbocco, completamente ostruito da blocchi di roccia, che potrebbero essere franati o messi in opera per impedire l’accesso.
Comunque sia, della magnesite non vi è traccia nella galleria accessibile e nel pozzo, mentre invece frammenti di questo minerale in associazione con dolomite si trovano sparsi nel terreno circostante.
Nelle vicinanze di questo sito, poco sopra il botro Sanguigna in destra idraulica, si trova la vecchia cava di Bucafonda dove veniva estratta la serpentinite utilizzata come pietra ornamentale.
La cava si presenta come un anfiteatro delimitato da pareti verticali sormontate da pini marittimi e dalla macchia mediterranea, con uno specchio d’acqua nella parte più bassa prossima all’ingresso dove le escavazioni condotte nel passato hanno lasciato una depressione delimitata da lisce pareti regolari intagliate dal filo elicoidale, il sistema utilizzato allora per estrarre i blocchi di pietra.
Per gestire questo sistema di taglio alcuni operai specializzati in questo tipo di attività erano stati fatti venire appositamente da Carrara, dove questa particolare modalità estrattiva era ampiamente diffusa per l’escavazione del famoso marmo.
Questo metodo si basa sulla lenta azione erosiva esercitata da una fune metallica intrecciata (il filo elicoidale) che trasporta acqua e sabbia silicea come abrasivo. Il filo è mantenuto in movimento da delle pulegge mosse da un motore ed è guidato da degli appositi rimandi con pulegge posizionati in genere a notevole distanza lungo il perimetro della cava; il filo viene fatto scorrere sulla roccia da tagliare presso la quale sono realizzati appositi "pozzetti", preparati in precedenza di fianco al blocco che si vuole isolare; in qualche decina di giorni si possono tagliare blocchi di decine di metri cubi.
Lungo il bordo della cava si vedono ancora i resti di alcuni rimandi con spezzoni di filo elicoidale avvolti intorno alle pulegge e la piazzola con quello che rimane dei motori e delle grosse pulegge che trasmettevano il movimento al filo.
La cava è stata in attività dal dopoguerra fino circa agli anni ’70 da parte dei fratelli De Ranieri che avevano anche un laboratorio di marmista a Livorno nei pressi della stazione ferroviaria e che realizzarono anche la pavimentazione tipo palladiana in via Grande a Livorno.
I blocchi estratti venivano spediti a Querceta dove erano segati in lastre per utilizzo ornamentale, fornendo prodotti di notevole pregio e bellezza per colore, venature e lucentezza; una volta un intero blocco è stato caricato in nave al porto di Livorno e spedito in America per formare un altare.
Si ringrazia la famiglia De Ranieri per le informazioni sulla cava e per aver messo a disposizione le vecchie fotografie qui riprodotte.
La cava è un ambiente molto suggestivo ed unico, di notevole valenza paesaggistica ed ambientale, di alto interesse non solo per il naturalista; dopo anni di incuria e di abbandono, è stato completamente ripulito da ingenti quantità di rifiuti a cura del suo nuovo proprietario, così tornando di nuovo al suo splendore originario.
Dal punto di vista geologico, la cava offre la possibilità di una perfetta osservazione e studio dei numerosi filoni presenti, che mostrano mineralizzazioni assai simili a quelle delle miniere di magnesite della valle del torrente Fortulla.
Essi hanno andamento subverticale, direzione nord – sud e potenza inferiore al metro; se ne possono riconoscere due diversi tipi: uno con mineralizzazione a magnesite e dolomite ed un altro ad opale e limonite.
Il primo è costituito da nuclei di magnesite biancastra, compatta, con aspetto porcellanaceo, circondati da dolomite verde in belle masse mammellonari a struttura zonata; ai lati di questo tipo di filoni sono frequenti vene di dolomite spatica, che contribuiscono a costituire un insieme molto appariscente ed estetico. Altri minerali rinvenuti in questa giacitura sono l’aragonite e la marcasite, entrambe in piccoli cristalli idiomorfi nelle geodi della dolomite, e raramente l’opale.
Filoni di questo tipo sono diffusi ampiamente in zona
La mineralizzazione dei filoni del secondo tipo è costituita da opale marrone di aspetto resinoso e da limonite terrosa alle salbande.
La limonite deriva dall’alterazione di un originario solfuro di ferro (marcasite); questo processo di alterazione produce fluidi acidi che percolano e interagiscono con la roccia incassante, depositando delle efflorescenze bianche e gialle, abbondanti nella stagione estiva, costituite dai minerali di origine secondaria epsomite (solfato eptaidrato di magnesio) ed aluminocopiapite (solfato idrato di ferro, magnesio ed alluminio).
Infine, riguardo a questa località, si segnala il fatto che ci sono testimonianze della presenza di una galleria situata sotto la cava nei pressi del botro Sanguigna; accertare la presenza o meno della galleria è oggigiorno praticamente impossibile dato che la zona è completamente ricoperta dal detrito prodotto dalla sovrastante cava.
Un’altra località interessante dal punto di vista mineralogico è quella nei pressi del vecchio campo sportivo di Gabbro; qui, nelle fessure delle serpentiniti, si rinvengono alcune specie mineralogiche di origine secondaria: granati, diopside e vanadinite.
I granati si presentano in piccoli cristalli con abito rombododecaedrico, colore giallo e lucentezza molto accentuata; nell’insieme formano delle associazioni (“druse”) esteticamente assai valide. Le analisi chimico – fisiche per la loro caratterizzazione indicano che si tratta di un granato andradite (silicato di calcio e ferro) varietà topazzolite.
Associati ai granati possono rinvenirsi con una certa rarità sottili cristalli prismatici di diopside (silicato di calcio e magnesio appartenente al gruppo dei pirosseni) e, molto raramente, cristalli prismatici esagonali di vanadinite (cloro vanadato di piombo).
Presso il paese di Gabbro, nella zona dei vecchi lavatoi, sono presenti interessanti mineralizzazioni a quarzo ed altre specie mineralogiche.
Si trovano alla base stratigrafica dei sedimenti neoautoctoni, in prossimità del contatto con le sottostanti rocce serpentinose. La loro origine potrebbe essere collegata alla circolazione sotterranea dei medesimi fluidi che hanno dato origine nelle serpentiniti alle estese mineralizzazioni a magnesite, dolomite e calcedonio che assai diffusamente interessano il territorio del comune di Rosignano Marittimo.
Una prima segnalazione di queste mineralizzazioni risalente al 1988 riguarda la presenza di quarzo, calcedonio, opale e magnesite in piccole geodi negli strati della formazione delle arenarie del torrente Sanguigna.
La località di rinvenimento è ubicata nel versante orientale del poggio sulla cui sommità è stata eretta Villa Mirabella.
Recenti ed estesi sopralluoghi condotti nell’area dallo scrivente non hanno evidenziato neppure la minima traccia di questa mineralizzazione; persone che hanno visitato questo luogo negli anni passati sostengono che si tratta di un minuscolo affioramento, oggigiorno interessato da una frana e da vegetazione infestante che ne hanno obliterato la visione.
A non molta distanza dalla precedente località, lo scrivente ha rinvenuto una mineralizzazione a quarzo e calcedonio non ancora segnalata in letteratura e quindi descritta per la prima volta in questa sede.
Si tratta di geodi di dimensioni anche decimetriche, interamente tappezzate da quarzo in cristalli incolori o biancastri di dimensioni variabili ma comunque non eccedenti qualche millimetro, con il prisma pochissimo o per niente sviluppato.
La particolarità di questa mineralizzazione è costituita dal fatto che in alcune geodi ci sono due diverse generazioni di quarzo.
La prima generazione è formata da druse con aspetto mammellonare di cristallini in genere incolori, direttamente impiantati sulla roccia.
La seconda è formata da una specie di crosta con spessore di qualche millimetro, situata al di sopra della prima generazione di quarzo, costituita da un velo di calcedonio e da cristallini di quarzo analoghi ai precedenti ma di colore biancastro e poco trasparenti. Questa crosta si modella perfettamente sulla sottostante mineralizzazione pur potendosene distaccare abbastanza facilmente.
La roccia mineralizzata è costituita da strati decimetrici di calcari grigi a grana fine, fetidi alla percussione, molto compatti, completamente pervasi dalle geodi tappezzate di quarzo.

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